E’ iniziato l’anno scolastico e, puntuale come la morte, ecco il calendario fittissimo delle manifestazioni studentesche, volgarmente denominate dai protagonisti “scioperi”. Una volta chiarito che lo sciopero è dei lavoratori, i quali ci rimettono una giornata di stipendio, e non degli studenti, i quali ci “rimettono” una giornata di scuola, immagino tra pianti e lacrime per aver dovuto rinunciare per qualche ora al bene inestimabile della cultura, mi vengono alcune domande riguardo a queste mobilitazioni di massa, che qualche decennio fa hanno contribuito a cambiare (in meglio?) il volto dell’Italia e del mondo occidentale e che hanno saputo testimoniare a prezzo della vita di tanti (in Cina) l’anelito alla libertà. Prima domanda: non sarebbe più credibile una manifestazione studentesca organizzata di Domenica o durante le vacanze estive? Lì si potrebbe finalmente parlare di un sacrificio fatto in nome di un ideale. A dire il vero diversi anni fa ci hanno provato gli alunni del Caio Plinio ad organizzare una manifestazione di sabato pomeriggio. Risultato: 8 partecipanti! Probabilmente gli unici davvero motivati. Aver insegnato per dieci anni in diverse scuole superiori mi ha permesso di incontrare centinaia di studenti e penso di poter dire, senza tema di smentita, che per la stragrande maggioranza partecipare ad una manifestazione vuol dire fare baldoria una mattina, comunque perdere qualche ora di scuola. La credibilità di una persona, di un gruppo, di un movimento si misura sulla capacità di fare sacrifici in nome dei propri ideali, fino, se necessario, al sacrificio supremo, quello della vita. Gridare qualche slogan e reggere uno striscione è facile, fin troppo! Mi viene in mente la descrizione della folla che il Manzoni ci propone ne “I promessi sposi”. Quando si tratta di ammazzare o salvare il vicario di provvisione le due anime (numericamente piccole) cercano di tirare dalla propria parte il “corpaccio”, la massa informe che ha il numero come unica forza e può diventare sanguinaria o tenera a seconda di chi la dirige. Forse prepararsi alla vita e all’impegno per cambiare davvero la società con il proprio lavoro studiando seriamente senza perdere troppo tempo in scampagnate sarebbe meglio. Forse sarebbe più dignitoso se in piazza scendessero solo i “motivati” (anche solo 8): avremmo un’idea più precisa di quanto stanno davvero a cuore i problemi di tanta gente alle nuove generazioni e saremmo sicuri che ci sono ragazzi (per ragazzi non intendo i quarantenni fuori corso da secoli, che non si sa di che cosa campano, ma qualche sospetto viene) capaci di approfondire un problema e sentirlo davvero come proprio. E qui mi viene la seconda domanda: quanti studenti conoscono a fondo il motivo per cui sono scesi in piazza? Molti, voglio sperare. Ma mi viene qualche dubbio. Ho visto organizzare manifestazioni assolutamente improbabili, talmente improbabili che non si riusciva nemmeno a trovare un arringatore di folle in grado di illustrare il tema che aveva condotto in piazza (nei bar della piazza) decine di ragazzi. Non sarebbe meglio approfondire seriamente a scuola determinati temi, chiamando anche esperti che non dicano solo luoghi comuni? In tutto questo mi rimane l’impressione di un mondo della scuola lasciato a se stesso, dove l’unica vera risorsa è la buona volontà di studenti e insegnanti sorretti da un’autentica passione per la cultura che plasma un popolo. Quando una nazione non investe più sulla scuola significa che sta distruggendo il proprio futuro. Viene quasi il sospetto che tutto questo sia voluto, perché è più facile governare una massa di ignoranti, che hanno in testa solo qualche slogan, piuttosto che un popolo consapevole della propria storia e seriamente preparato ad affrontare le sfide della modernità senza farsi imbrogliare da nessuno.
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