Umiltà

Di : | Il : 18-01-2014

“Humus”, “homo”, “humilitas”: la sequenza di queste tre parole latine ci fa capire che la virtù più tipica dell’uomo dovrebbe essere l’umiltà, perché è la più conforme al suo essere fatto di terra.  Spesso confondiamo questa virtù con la disistima di sé ( reale o presunta), tipica di chi non riconosce le proprie  capacità e potenzialità e sembra trovare soddisfazione solo nel disprezzo di sé stesso. E tuttavia quando questa disistima è falsa possiamo parlare di “umiltà pelosa” (così la definiva il nostro Padre spirituale in Seminario), cioè superbia travestita. Infatti come l’adolescente (e se ne incontrano di ogni età!) ha bisogno assoluto di essere al centro dell’attenzione e per questo può urlare, strepitare, esagerare (dietro a tanti coma etilici c’è proprio questo) oppure piagnucola, sta in disparte, si isola, fa la vittima così il superbo afferma senza pudore la propria (presunta) superiorità (ha sempre ragione, gli altri sono tutti incapaci, lui ha la soluzione per tutto, dal campionato di curling alla politica statunitense) oppure si pone sotto tutti gli altri così da attirarsi i complimenti e le lodi (che segretamente pensa già di meritare) per la modestia e l’umiltà. C’è poi chi, sfiorando la patologia ( e, qualche volta, finendoci) ha reale disistima di sé, al punto da negare  l’evidente presenza di caratteristiche positive nella sua persona, davvero convinto di non averne neppure una.

Essere umili, dunque, significa riconoscere le qualità di cui si è dotati, nella consapevolezza che ci sono state donate da Dio. Il Quale vuole, come nella parabola dei talenti, che le mettiamo a frutto a favore dell’umanità. Riconoscere le proprie qualità vuol dire, ovviamente, vedere anche quelle negative. Siamo deboli e i nostri difetti spesso causano danni (anche rilevanti se si appartiene a quelle categorie che tengono le leve del potere politico, economico, ecclesiastico). E qui l’umiltà richiederebbe la capacità di chiedere perdono quando si sbaglia. Secoli fa (sant’Ambrogio e Teodosio insegnano) ad un peccato pubblico, noto a tanti, doveva corrispondere una penitenza pubblica, visibile, a dimostrazione del pentimento. Senza  tornare troppo indietro, sarebbe tuttavia opportuno anche oggi che a pubblici danni seguissero  almeno pubbliche richieste di perdono. E invece…Ammettere di aver sbagliato sembra quasi determinare una perdita di dignità e di prestigio di fronte ai “sudditi”. Cominciamo noi, allora. Saper chiedere perdono è una conseguenza logica della virtù dell’umiltà, un segnale preciso per capire se siamo umili oppure orgogliosi e narcisisti.

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